Quello della cittadinanza globale è un concetto controverso, fin dalle sue origini.

Secondo la tradizione, fu il filosofo cinico Diogene il primo a utilizzarlo. Interrogato sulla sua provenienza, rispose: “sono cosmopolita, un cittadino del mondo”. Oggi, così come nella Grecia del IV secolo a.C., si tratta di una dichiarazione dirompente.

Se guardiamo agli aspetti formali, i cittadini del mondo non possono esistere: non esiste una città globale cui appartenere, né tantomeno un governo globale che possa definire diritti e doveri comuni a tutti e che rilasci passaporti o carte d’identità.

Cittadinanza, però, è anche “pratica”. Vuol dire partecipazione, coinvolgimento, azione. È vivere in relazione con gli altri, dentro a comunità di cui definiamo noi stessi i confini. I cittadini del mondo sono, quindi, coloro che hanno chiari i benefici che derivano dall’essere parte di una comunità insieme locale e globale, ne riconoscono le responsabilità, e, a partire da questa consapevolezza, orientano i propri comportamenti, le proprie scelte e le proprie azioni al bene comune.

Educare alla cittadinanza globale vuol dire, allora, «costruire conoscenze, competenze, valori, atteggiamenti che i discenti devono poi essere in grado di restituire, al fine di contribuire a un mondo di pace, più giusto e inclusivo» (UNESCO, 2015).